La mafia che leggiamo nel libro di Stagnitto è la mafia dei primi tempi, quella che, soppiantato il potere politico-economico di prìncipi marchesi e baroni sbevazzoni e mangiatari, garantiva l’ordine costruito dai signori delle vigne piemontesi sopra le ferite dell’anarchico orgoglio garibaldino umiliato a Teano; aiutava le famiglie bisognose a diminuire le difficoltà del giorno; impediva la reazione che quasi sempre la prolungata condizione di povertà e di miseria alla lunga provoca; proteggeva il povero servo della gleba dall’assalto del brigante che gli rubava il frumento faticosamente raccolto spiga dopo spiga; assicurava la giustizia nel senso che non tollerava dentro il tessuto popolare accadimenti di sopraffazione e di sopruso dell’uno nei confronti dell’altro del tipo di quello che consente a Carmelo di appropriarsi con la violenza della donna promessa a un altro. E quindi insieme con il crepitio delle fucilate che stroncano la malefica esistenza degli approfittatori, nella fattispecie i banditi, ecco che ci sconcerta e ci confonde il verificarsi di un’azione terribile nella forma e nella sostanza che pur intervenendo per punire l’oltraggio portato a un essere umano, cioè alla ragazza rapita e violentata nel contesto di una forzata “fuitìna”, è pur sempre un’azione ritorsiva di grandissima ferocia. Vestito come un vero padrone del territorio “con la giacca di velluto sopra le spalle e i pantaloni dentro gli stivali” lu zì Turi ordina senza esitazione l’esecuzione di Carmelo mediante la “tagliata” di minchia e di coglioni. “… Uscii il coltello… prima gli tagliai i coglioni, il sangue cominciò a uscire velocemente, dopo gli tagliai la minchia”. “Méttiglieli in bocca a ‘stu pezzu di mmerda” ordinò la vera autorità del paese di quel tempo.
Diario di un boss
Anno | |
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Pagine | 144 |
Caratteristiche | Brossura |
Formato | |
ISBN | |
Autore |
12,00€
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